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Come le fluttuazioni del dollaro USA influenzano l'allocazione degli asset

Brij Khurana, Fixed Income Portfolio Manager
4 min di lettura
2026-05-31
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Le opinioni espresse sono quelle dell’autore alla data di redazione. I singoli team di gestione possono esprimere opinioni differenti e prendere decisioni d'investimento diverse. Il valore finale dell’investimento potrebbe essere superiore o inferiore a quello dell’investimento iniziale. Eventuali dati di terzi utilizzati nel presente documento sono considerati affidabili, tuttavia non è possibile garantirne l’esattezza. Destinato esclusivamente a investitori professionali.

Non tutti i sorrisi sono simmetrici. Alcuni riflettono il peso delle esperienze vissute.

- Non attribuito

La teoria del sorriso del dollaro sostiene che la valuta di riserva mondiale tende ad apprezzarsi sia quando l’economia statunitense è debole (poiché gli investitori cercano beni rifugio), sia quando è forte (poiché gli investitori diventano ottimisti sulla crescita degli Stati Uniti). Sempre secondo la teoria, il dollaro tende invece a indebolirsi nella fase intermedia del ciclo (la parte inferiore del “sorriso”), quando la crescita degli Stati Uniti rallenta rispetto al resto del mondo (Grafico 1). Ad aprile 2025, quando i mercati sono stati colpiti dalla volatilità legata alle preoccupazioni sui dazi, il dollaro statunitense si è deprezzato nonostante il crollo dei mercati azionari e l’aumento delle probabilità di una recessione negli Stati Uniti. In questo caso, quindi, la teoria non è stata confermata. Per comprenderne i motivi e capire quali possano essere le implicazioni per i mercati in futuro, è utile considerare il punto di vista degli investitori esteri (non statunitensi).

Grafico 1
Il “sorriso” del dollaro statunitense

Grafico con una linea curva a forma di sorriso che rappresenta l’andamento tendenziale del dollaro in diversi scenari di mercato

Motivi per cui gli investitori internazionali hanno preferito vendere dollari piuttosto che azioni o obbligazioni statunitensi

Negli ultimi 15 anni, il volume di asset statunitensi acquistati da investitori esteri è aumentato significativamente, raggiungendo circa 26.000 miliardi di dollari US, pari all’88% del PIL. Questo incremento è dovuto principalmente all'aumento dei prezzi degli asset americani, che ha superato quello della maggior parte degli altri paesi, insieme a un forte apprezzamento del dollaro. In seguito a questa performance, molti investitori stranieri hanno mantenuto le loro esposizioni in asset statunitensi senza copertura valutaria e pertanto subiscono perdite se la loro valuta nazionale si apprezza rispetto al dollaro USA. Gli investitori esteri coprono più frequentemente le obbligazioni statunitensi rispetto alle azioni, poiché la volatilità dei titoli a reddito fisso è inferiore e chi acquista obbligazioni può utilizzare vari strumenti di credito per compensare i costi della copertura valutaria.

Per tutto il mese di aprile, i rendimenti obbligazionari sono aumentati per timore che gli investitori stranieri vendessero i loro titoli. Tuttavia, poiché la maggior parte di queste posizioni era coperta dal rischio di cambio, le vendite non si sono effettivamente concretizzate. C’è stata, però, una persistente vendita di dollari statunitensi da parte degli investitori esteri, soprattutto dopo che l’amministrazione Trump ha ridotto i dazi precedentemente annunciati nei confronti della maggior parte dei paesi. Un comportamento piuttosto logico: questi investitori stavano infatti subendo perdite sui portafogli azionari non coperti, proprio mentre le loro valute nazionali si stavano apprezzando rispetto al dollaro. Quando una posizione non va come sperato, si può optare per una copertura o vendere gli asset in questione. Non sorprende che la maggior parte degli investitori esteri abbia scelto di coprirsi dal rischio valutario, soprattutto considerando l’apparente preferenza del presidente Trump per un dollaro più debole e la riluttanza degli investitori a realizzare forti perdite sui portafogli azionari. 

Implicazioni per i mercati azionari statunitensi

A metà maggio, il mercato azionario si è ripreso. Ora è molto più probabile che gli investitori esteri approfittino di questa fase di forza per ridurre l’esposizione alle azioni statunitensi e limitare parte del rischio valutario non coperto. Analizziamo più da vicino chi potrebbero essere questi potenziali “venditori” e quali conseguenze potrebbero esserci per i mercati statunitensi. Dall’inizio di aprile, ad apprezzarsi maggiormente sono state le valute di paesi con posizioni patrimoniali internazionali nette positive, cioè che possiedono molti asset all’estero. Tra questi, Svizzera, Giappone, Corea e Taiwan. Allo stesso tempo, paesi come Norvegia, Canada e Australia, tra gli altri, detengono esposizioni per migliaia di miliardi di dollari in azioni statunitensi, in gran parte non coperte dal rischio valutario, attraverso i loro fondi pensione. Se questi paesi iniziassero a effettuare prese di beneficio sulle loro posizioni in azioni statunitensi o a coprirsi ulteriormente dal rischio di cambio vendendo dollari e comprando la propria valuta nazionale, ciò potrebbe limitare il potenziale di rialzo dei prezzi azionari negli Stati Uniti. 

Nel 2022, quando la correlazione negativa tra rendimenti azionari e obbligazionari è venuta meno, molti gestori hanno cercato nuove forme di diversificazione, spostandosi verso l’oro o il bitcoin e riducendo l’esposizione obbligazionaria per proteggere i portafogli. Dopo il recente calo del dollaro durante una fase intensa di avversione al rischio, credo che molti allocatori non statunitensi adotteranno una strategia simile: diversificare la propria esposizione dalle azioni USA puntando di più sui mercati locali o su altri asset globali. 

Dal 2010, si è assistito a un vero e proprio mercato ribassista nella diversificazione internazionale, con i titoli statunitensi che hanno sovraperformato il resto del mondo di quasi il 300%2. Il “sorriso storto” del dollaro USA potrebbe invertire questa tendenza e ridisegnare i flussi dei capitali internazionali.

1 Bureau of Economic Analysis. | 2 Bloomberg.

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